È capitato più volte che parlassi di rebranding, sia qui su ctrl+f che sul mio blog personale. Casi ben riusciti, casi meno riusciti, che ci sono piaciuti o che ci hanno fatto rabbrividire. Oggi torno sull’argomento, dopo essermi imbattuta in un articolo del The Verge, che analizza il bizzarro e, a tratti, divertentissimo caso KIA.
Avete mai sentito parlare della casa automobilistica KN? No? Neanche noi e come noi milioni di utenti di tutto il mondo che nell’ultimo anno si sono ritrovati a googolarla nel disperato tentativo di capire da dove fosse saltata fuori. Peccato che non esista nessuna KN ma un rebranding, riuscito malissimo, della sudcoreana KIA.
All’inizio del 2021 la prima casa automobilistica sudcoreana decide di cambiare logo e stemma sulle proprie autovetture. Il vecchio marchio, che compariva all’interno di un ovale, viene totalmente rivoluzionato a partire dal colore fino alla font. Addio ovale, benvenuta stilizzazione. Troppa. Dov’è finita la separazione delle lettere? La I e la N troppo vicine e schiacciate hanno creato uno stranissimo effetto di lettura, che le fanno assomigliare più a un N che alle vocali del brand.
Un rebranding decisamente poco riuscito data l’illeggibilità e la confusione venutasi a creare negli automobilisti e acquirenti di tutto il mondo! Avendo studiato il coreano e l’alfabeto Hangŭl posso forse capire il simbolismo e l’esigenza di stilizzare all’estremo ma da occidentale, storco il naso, come il resto del mondo.
GAP
Avendo appena parlato del fallimentare caso KIA, come faccio a non citare un altro eclatante fallimento? Forse il più noto degli ultimi 10 anni, che ha creato il mal contento di milioni di clienti, tanto da costringere il noto marchio di abbigliamento casual a fare dietrofront in meno di una settimana dal lancio e tornare sui suoi passi: GAP.
Il caso GAP non ha creato nessuna difficoltà di lettura ma uno smarrimento e disappunto globale. Anche in questo caso ci si è chiesti: “Chi sono mo’ questi?”. Nel disperato tentativo di rimodernare il marchio e la font, si sono persi per strada quei tratti che tanto caratterizzavano e rappresentavano l’azienda.
Secondo Bill Chandler, allora responsabile della comunicazione aziendale, il nuovo logo doveva essere «più contemporaneo, un’espressione moderna» dell’azienda. Peccato che la forma “in minuscolo” e la scelta di rilegare l’ormai famoso quadrato che racchiudeva il logo in un simbolo “elevato a potenza”, sia stato un fallimento totale. Un vero gap stilistico!
(Immagine tratta da sito The Branding Journal)
Kraft
Continuando la carrellata di rebranding più assurdi e insensati, mai capiti della storia, non posso non citare il caso Kraft. Perché? Ma ancora perché? La famosissima azienda alimentare statunitense, dal nulla e senza senso, non solo cambia completamente stile, forma, colore, ma addirittura naming! Al brand si aggiunge un “foods” (?). Il risultato del rebranding non aveva alcun collegamento con l’immagine aziendale utilizzata fino a quel momento, non aggiungeva nulla al Brand e creava una confusione pazzesca nei consumatori. Dopo alcuni mesi si tornò al vecchio stile e soprattutto vecchio naming, rimodernando semplicemente la font.
(Loghi tratti da Wikimedia Commons)
Tropicana
Dopo aver parlato di loghi che cambiano, naming che compaiono e scompaiono, aggiungiamo anche il packaging. Giusto per non farvi mancare nessun esempio. Nel 2009 la nota marca di succhi di frutta Tropicana Products, di proprietà Pepsi e Co., non solo cambia logo ma cambia addirittura formato e grafica del suo prodotto di punta: il succo d’arancia. I consumatori criticarono aspramente la scelta dell’azienda, perché nonostante una campagna pubblicitaria costata ben 35 milioni di dollari, trovarono difficile distinguere il prodotto da altri marchi più generici e di qualità inferiore. Tanto che il famoso sito di pubblicità e marketing The Branding Journal, analizzò il caso, registrando un calo del 20% (circa 30 milioni di dollari) sul fatturato dell’azienda. Poche settimane più tardi, il vecchio packaging ritornò sugli scafali dei supermercati.
(Immagine tratta da sito Toptal.com)
Mastercard
Del logo Mastercard ne avevo già parlato in precedenza, quando dilagò la moda dei loghi nameless. Cito il caso perché in molti si trovarono spiazzati dall’ennesima trasformazione del marchio. La Mastercard infatti negli anni ha cambiato più volte stile. Andando sempre più a stilizzare, sintetizzare e minimalizzare. Forti della convinzione che tutti ormai riconoscessero il Brand, anche senza il logotipo, lo hanno eliminato, lasciando solamente il pittogramma. Chi evidentemente non aveva mai posseduto una carta di credito, si è trovato spiazzato. Un caso nonsense ma che cito per par condicio.
(Loghi tratti da Wikimedia Commons)
Animal Planet
Il celebre canale televisivo dedicato al mondo degli animali si reinventa nel 2018. Il rebranding non è stato accolto da tutti con entusiasmo. Si diede importanza al lettering e il simbolo dell’elefante, che lo aveva rappresentato fino a quel momento, scomparve completamente. Può un canale che si occupa di animali non avere un animale rappresentativo nel proprio logo? Nell’ottobre dello stesso anno apparve di nuovo l’elefante in un altro e definitivo rebranding, tuttora in uso.
(Loghi tratti da Wikimedia Commons)
Honorable mentions
Terminerei il post con le honorable mentions, brand che hanno cambiato logo nel corso della loro storia e andrebbero citati per scelte e motivazioni molto discutibili, che hanno portato ai vari rebranding. Il primo a conquistarsi la menzione è la BP, società energetica britannica British Petroleum, che dopo novant’anni di attività decise di rimodernarsi e rappresentarsi con un simbolo orientato verso la “greenwashing”. Cercando, forse in questo modo, di ripulirsi l’immagine dopo lo scandalo che l’aveva vista protagonista. Puoi ripulirti l’immagine tramite il logo ma chi ripulirà il pianeta dai devastanti danni che una multinazionale del genere ha causato e continuerà a causare?
Seconda menzione va alla Pepsi, che nel 2008 spese 1 milione di dollari per ritrovarsi un logo del tutto simile al precedente. Come buttare alle ortiche un botto di soldi! Altro caso simile quello di AOL (scusate, Aol.) che aggiunse un insensato punto alla fine del nome e altrettanto insensate grafiche, che colpirono i nostri occhi di designer come cazzotti di Tyson.
La quarta menzione se l’aggiudica il famoso produttore di cioccolato americano Hershey’s, che vince anche il premio per miglior rebranding di m***a di sempre. Letteralmente! Il caso scatenò ilarità, meme, barzellette e battute a non finire. Produci cioccolato e che fai? Non lo aggiungi un simbolo che ricorda palesemente la cacca? Non aggiungo altro.
Concludo, non con un vero e proprio rebranding ma si merita comunque una menzione perché considerato, per restare sul tema appena trattato, tra i più brutti loghi di sempre: Olimpiadi di Londra 2012! L’idea dei creatori pare fosse quella di creare un brand unico nel suo genere (anche noi ci auguriamo di non vederne mai più di simili!) che colpisse il pubblico dei più giovani, utilizzando un carattere e uno stile particolare e originale. Il risultato fu un “2012” incomprensibile, illeggibile, orribile e a detta di molti volgare, insomma un condensato di cose da non fare MAI quando si progetta un logo!